Quando si dice la Storia viva. Ci abbiamo messo quattro ore di navigazione, lungo il Kolyma, ma davanti a me finalmente si staglia la falesia di permafrost di Duvanny Yar. È un luogo mitico per gli studiosi di tutto il mondo in almeno una dozzina di discipline, dai paleontologi ai biologi. Qui, a 130 chilometri da Chersky, il fiume ha infatti eroso le sponde e interi costoni di permafrost ricco di gas serra, o yedoma, sono esposti en plein air. Il processo in estate è continuo - il sole scalda le colonne di ghiaccio innestate nel terreno facendo crollare il suolo - e man mano che i costoni franano, sulle rive del fiume si ammassano reperti vecchi di migliaia di anni: zanne di mammut, ossa di megafauna, radici, materiale organico vario. Eugene e Jean-Michel si fermeranno qui qualche giorno per condurre le loro ricerche, Nikita tornerà a prenderli quando avranno finito. Per me è l’occasione perfetta per capire finalmente, nei minimi dettagli, che cos’è questo benedetto permafrost di cui tutti parlano.
Prima, però, ci fermiamo a far visita a un gruppo di ricercatori amici di Nikita. Sono a bordo di una barca, ormeggiati sulla riva opposta della falesia di Duvanny Yar. Pare che siano a corto di provviste e quindi portiamo loro un po’ di rifornimenti. In realtà mi sembra se la stiano cavando alla grande. L’equipaggio, oltre agli scienziati, consta anche di alcuni ‘tuttofare’ del posto. Ma, francamente, salendo a bordo è difficile dire chi sia chi. Stanislav mi dà il benvenuto brandendo un coltellaccio con cui sta pulendo una trota gigante. E si presenta come pescatore. In realtà è uno studioso dell’istituto Pushchino di Mosca. Miron invece è introdotto come «il professore». Ma è il navigatore, l’uomo che conosce il Kolyma come le sue tasche. Non è possibile rifiutare un giro di vodka e nel mentre il capitano frigge del pesce appena pescato. Le nuvole si sono diradate e il cielo è di un azzurro strabiliante. Il morale sulla barca è alto e si chiacchiera volentieri, battuta dopo battuta. È una scienza proletaria, quella che si fa qui sul Kolyma: nel fango di Duvanny Yar si sprofonda insieme.
Nikita a un certo punto mi fa capire che ce ne dobbiamo andare e mi sibila in un orecchio: «cercheranno di appiopparti del pesce, tu resisti». In effetti va proprio così. Io provo a blaterare qualcosa ma l’esuberanza di Stanislav è incontenibile e risaliamo sul nostro motoscafo con due sacchetti pieni. Nikita, quando siamo a distanza di sicurezza, ci guarda dentro e scopre uno storione. Sospira, gli occhi al cielo. Poi lo getta in acqua. «Si rischia la galera, pazzi scriteriati». E dà gas al barchino.
La falesia di permafrost, vista da vicino, è davvero impressionante. Le colonne di ghiaccio brillano al sole e a seconda dei riflessi virano tra l’argento e il blu metallizzato. Ci avviciniamo con circospezione perché il rischio di crolli improvvisi è alto: la collina emette continui scricchiolii, simili a quelli del fronte di un ghiacciaio. E per certi versi, lo è davvero. Nikita mi mostra una sezione del permafrost in cui si vedono chiaramente delle sottile linee parallele: ogni striscia rappresenta un anno di sedimentazione, in un meccanismo non dissimile da quello degli anelli degli alberi. Nel costone poi si nota chiaramente una miriade di piccole radici -- hanno tutte migliaia di anni. Lo stesso fenomeno lo avevo osservato nella grotta del Parco ma qui, a Duvanny Yar, la scala è raddoppiata per dieci e ogni dettaglio appare chiaro.
La falesia che mi trovo davanti, però, è davvero la punta dell’iceberg. Lo yedoma della Yakutia si trova in un bacino esteso quanto il Texas e, stando alle analisi dell’americana National Accademy of Sciences contiene dentro di sé più carbonio di quanto ce ne sia nell’atmosfera terrestre e nella vegetazione messe insieme. «Dovesse sciogliersi», spiega Nikita, «verranno sprigionate tante emissioni quanto ne producono gli Stati Uniti in un anno. Se va bene. Altre stime parlano del raddoppio netto di tutti i gas serra prodotti dall’uomo». Il problema è che ormai ci siamo vicino. «Quando ero piccolo - racconta Nikita - la temperatura media annuale era di -11 gradi mentre il permafrost stava a circa -7 gradi. Ora la media atmosferica è di -8 gradi, dunque 3 gradi più alta: la stessa variazione è passata nel permafrost, forse qualcosa in più. Ed è proprio questo il punto, ormai non è né perma né frost».
L’analisi di Nikita fa il paio con le storie che circolano alla NESS. Allora mi vengono in mente le parole di Juri, che tra una notte in bianco e l’altra mi ha raccontato della sua ultima missione in Groenlandia. Due settimane, dice, passate in magliettina, tra laghetti idilliaci e vegetazione riarsa dal sole. «Mai visto nulla del genere, a 10 chilometri dalla banchisa». Peccato che di mai in mai si sia arrivati alla norma, alla variabile costante. «Nella nostra regione - attacca Nikita - la punta più fredda del permafrost arriva a -4 gradi, ma la media è tra i -2 e i -1. Il permafrost è più caldo rispetto all’atmosfera perché in estate il calore penetra nel terreno e poi, quando arriva la neve, resta intrappolato: senza neve non ci sarebbero variazioni tra il sopra e il sotto». E qui entrano in gioco gli animali, che pestando la neve la compattano e creano dei canali di comunicazione, raffreddando così il suolo. «Nel Parco - assicura Nikita - il permafrost ha una temperatura inferiore di 2-3 gradi rispetto alle zone esterne dove non ci sono gli animali».
Il Parco del Pleistocene dunque funziona. Mentre facciamo ritorno alla NESS, planando sulle onde del grande fiume, non posso fare a meno di pensare alle implicazioni che il modello-Zimov potrebbe avere a livello planetario, se solo ci fosse davvero la volontà di fare qualcosa di serio per fermare l’apocalisse a cui stiamo andando incontro felici e beati. Da qui in poi, infatti, le buone notizie finiscono. Nikita, non appena sbarcati, mi indica una delle case che sorgono sul promontorio dirimpetto alla stazione di ricerca. «Lì abita mio padre, ti aspetta». Finalmente è arrivato l’incontro con il fondatore. Non che non lo abbia già conosciuto: Serghei, come dicevo, bazzica per la base a pranzo e a cena. Ma poi scompare. E se Nikita ha sempre il sorriso stampato sulle labbra, la battuta pronta, suo padre è l’esatto contrario: il volto imperscrutabile di una sfinge, la serietà fatta persona. Quindi entro a casa sua con la stessa trepidazione di Neo quando va a incontrare l’oracolo nel primo Matrix.
Trovo Serghei in cucina, intento a fumare una sigaretta chino sulla bocca aperta della stufa spenta. Mi siedo, gli scatto qualche foto, parliamo di niente per alcuni minuti. Ho una serie di domande che vorrei fargli ma la prima mi esce quasi da sola, senza veramente pensarci. Ma come ti è venuto in mente? Vedo che scava nella memoria, ma solo un poco. La risposta in realtà e pronta. «A me piace vivere nella bellezza, e l’ambiente circostante qui non è bello per niente. Mi piacciono i parchi. Come a tutti. E non è un caso. Era il panorama del Pleistocene: distese d’erba, alberi magnifici. Volevo che fosse un piacere vivere in queste zone, per me e la mia famiglia». Detta così, come risposta è alquanto deludente. Ma poi capisco che Serghei ama passare per cinico, fa parte del suo personaggio. La conversazione vira presto sul cambiamento climatico e il surriscaldamento dell’Artico. «Io sono pronto a tutto. Ho costruito le mie case sulla roccia, non il permafrost, e ho investito in chiatte galleggianti. L’aumento del livello degli oceani non mi spaventa: se il clima qui sarà più caldo la terra che possiedo varrà mille volte di più, diventerei molto ricco». La maschera da duro però cade in fretta, basta che transiti per la cucina la nipotina di mezzo (sospetto la sua preferita).
«La verità - dice serio - è che la nostra civiltà potrà sopravvivere solo se il clima resterà sostenibile in vaste parti del nostro pianeta, quindi dobbiamo essere responsabili nei confronti dei nostri nipoti e bisnipoti. Chi non ce li ha non può capire cosa sia la speranza. La situazione è critica, abbiamo passato la soglia di stabilità. Negli ultimi due anni il permafrost ha iniziato a sciogliersi ovunque nella nostra regione. Dicevano che sarebbe avvenuto fra 100 anni. No, è già iniziato. E se il trend continua, vi dico che nei prossimi 10 anni il permafrost rischia di sparire del tutto. È un processo veloce. E stiamo parlando delle zone più fredde… figuriamoci dove la temperatura media del permafrost non è di -9 ma di -3 gradi». A parlare ora è lo scienziato, lo stesso che propose a Science nel 1998 un paper in cui descriveva l’impatto tremendo che avrebbe avuto sul clima lo scioglimento dello yedoma siberiano. Proposta non accettata. Troppo avanti coi tempi. La prova del nove viene nel 2006, quando Science contatta Serghei e gli chiede di sottoporre di nuovo il suo studio al comitato scientifico. I tempi sono maturi. E viene pubblicato. Quindi, insomma, ascoltarlo non mi parrebbe una cattiva idea. «La cosa grave - sottolinea - è che il nostro permafrost non solo è ricco di CO2 ma di metano, che è un gas serra 25 volte più potente dell’anidride carbonica. L’obiettivo ora è quello di mitigare il climate change. Prendere tempo. In 300 anni il problema sarà minore, ci saranno nuove tecnologie, si costruiranno nuove città. Ma dobbiamo iniziare ora: se agiamo in fretta, forse possiamo ridurre i danni al permafrost di 5-10 volte».
Serghei non crede infatti che il mondo possa davvero ridurre le emissioni antropiche. «Costa troppo, il capitalismo non lo permetterà», assicura. «Facciamo quindi quel che possiamo». E cioè prendere il modello-Zimov ed estenderlo ovunque sia possibile. Soprattutto in Siberia. A una condizione però. «Se ne deve occupare la comunità internazionale, perché i rischi del climate change pongono una sfida globale. Non può pensarci la Russia da sola. Anche perché il riscaldamento avvantaggerà il nostro Paese, potremmo raddoppiare il Pil». Il ragionamento, dunque, è che non si può chiedere ai tacchini di votarsi il natale. Ma c’è di più. «Mettiamo che Vladimir Putin decida di seguire l’esempio del Parco e applicarlo su vasta scala in Siberia. Gli altri paesi direbbero ‘ah, Putin vuole modificare il clima, è pericoloso’. Ecco perché ci vuole il coordinamento della comunità internazionale. Io dico: le basi scientifiche del Parco sono solide, la geoingegneria con gli animali costa poco ed è utile a vari livelli. E poi non dà profitti extra a Putin perché il clima sarà più freddo. Che volete di più...». Quel plurale è ovviamente diretto all’Occidente. «Solo degli stupidi si metterebbero a litigare con la Russia, adesso poi… c’è abbastanza spazio da noi per ospitare tutta la popolazione europea».
A registratore spento (non che Serghei ci faccia davvero caso) parliamo di altre piccole cose, di figli, di Italia, di futuro. Poi, prima di lasciarlo, provo l’urgenza di soddisfare l’ultima curiosità. Com’è che uno nato e cresciuto a San Pietroburgo decide di venire a vivere a Chersky, in una delle zone più remote e inospitali al mondo? Serghei ci pensa su. Il suo sguardo prima vaga, dopo incontra il mio, ed improvvisamente ne percepisco tutta l’intensità. Quando finalmente risponde, è una fucilata: «Perché cercavo la libertà».